ALBERTOBRAMBILLA
Celentano al bar del Cesarino
Lampi di memoria, raccontini e canzonette
Illustrazioni di Franco Battista Lombardini
2010
PAROLE
Pavone. È la prima immagine. Colori. La ruota magica. Il primo incontro, forse, con la bellezza. Malvaglio. Il correttore automatico del PC corregge in malvagio . No. Malvaglio . È un piccolo paese. La grande aia, la mia piazza. Vi s’affacciavano gli edifici. Con le abitazioni dei contadini e le stalle e il granaio e le macchine agricole. Pulcini che giocano nell’aia, una decina. Seconda immagine. Rapidi scatti, traiettorie. Segmenti, parabole. Li seguo con lo sguardo. Sono le prime forme, diventeranno segni, alfabeti: C T Z. Lucciole. È la terza immagine, notturna. La lunga via che andava al cimitero. Ma non ero pauroso. Erano compagne di gioco, le lucciole. Nelle sere d’estate. A Malvaglio. Fotogrammi della memoria. L’odore della stalla. Le prime parole. La mia balia, Paolina. E Giulio e Assunta. C’è forse una logica nell’anima elettronica del PC. Ha dei sentimenti, ha capito la mancanza, il vuoto dietro-dentro quella parola, Malvaglio, quel piccolo paese dove vissi i primi anni. Lontano.
RITORNO
Tre anni dopo. Ritorno a casa. Busto Arsizio. Nome impronunciabile per un bambino. Troppe esse e zeta. Bustoarsizio. È come il sibilo della biscia, è l’agile lucertola che sfreccia. Sono nato in un giorno di neve, marzo pazzerello. All’angolo fra via Roma e piazza Trento e Trieste. Non esiste più la mia casa. Inghiottita nel nulla. Fufff boffff. Sparita. Pufff. Ne rimane forse la memoria. Queste parole che inseguono il tempo, all’indietro. La memoria, i ricordi. Forse ingannano. Mai fidarsi di loro. A lungo ho creduto che piazzatrentotrieste fosse un solo nome, come una formula magica abracadabra. Uno scioglilingua per vedere se sei un tipo sveglio. Come trentatrentinientrarono… bustarsiziopiazzatrentotrieste. Ahhh! Dopo manca il respiro ma se non sei incespicato in qualche zeta, dopo sei contento. Ah. La carta di identità impressa nella lingua, bustarsiziopiazzatrentotrieste. Un esercizio terribile per chi come me non parlava l’italiano, solo qualche parola bastarda in dialetto. Era come cinese quella piazzatrentotrieste.
CONFINI
Il mio regno si affaccia su piazza Trento e Trieste, si allunga in via Roma, poi devia in via Cardinal Tosi per ritornare alla piazza. In quel quadrilatero vivevo, con pochi amici, non tutti del genere umano. Abitavo in una modesta casa posta all’angolo, fra la piazza e via Roma, vecchi cortili ora sostituiti da una banca. Anni 1958, 1959, 1960 o giù di lì. L’Italia del dopoguerra. L’Italia in marcia, anzi in automobile, magari in Fiat 600. Però ricordo – ma è un soffio una nuvola sottile spazzata dal vento – il tram che sostava davanti all’asilo Sant’Anna. Era come una carrozza che andava verso il West, era l’ignoto e la proibizione. Il go-kart rosso Ferrari sfrecciava percorrendo almeno cinquanta metri di pista. Poi il gradino del marciapiedi obbligava a ritornare indietro, dal Bar gelateria al panificio di mio padre. Una bella pedalata ripetuta all’infinito, ma allora non sapevo contare e la gara finiva quando mi chiamavano per mangiare. Mi sento un pilota un eroe. I clienti sono insieme affettuosi “controllori” e tifosi: “oggi che gara hai vinto?” Ma ogni tanto la mamma si affacciava alla porta del negozio per vedere se avevo combinato guai. Il go-kart fu poi sostituito da una biciclettina, ancora rossa. Allora fu il momento di lasciare i luoghi conosciuti e di avventurarsi per il Mondo.
IL NEGOZIO
Mio padre si chiama Piero. Fa il prestiné, fa il pane. Mia mamma si chiama Franca e lo vende. Il pane. Il piccolo negozio che si affacciava sulla piazza è la mia casa. Idem il forno. Nel negozio c’è di tutto. Non come adesso però, tutto diverso. La pasta si vende soprattutto sfusa. In grossi sacchi aperti, con dentro un palotto di ferro. Mi dia un chilo di maccheroni (un palotto pieno e ancoraun pò). Ecco . Mezzo chilo un pò più di mezzo palotto.I ncomincio a capire le unità di misura. Forse solo per gli spaghetti c’erano le scatole. Ricordo le prime marche. Buitoni scatola rossa. Castiglioni azzurra. Chigi gialla. Combattenti… Non ci sono scadenze perché la pasta sfusa si vende in fretta. Ricordo invece che noi mangiavamo ogni tanto la pasta vecchia , con le farfalline e icagnotti. Ma era buona lo stess o, anzi la credevo una specialità perché erapiù sostanziosa . Anche i biscotti secchi si vendono sfusi, nel solito sacco di juta e con il palotto. Biscotti Colussi. Poi Lazzaroni, in scatola, Ma sono per i ricchi mi dice la mamma. È buono il cioccolato Talmone. Meglio ancora il cioccolato Cima. È buono il pan meino che fa mio papà. Mi piace tanto nel latte. Mangio i pezzi non venduti. E io prego il Signore che nessuno li comperi. Ma io non lo digerisco bene il latte. Però mi piace vederlo prigioniero del vetro. La bottiglia però non si butta via. Si riporta dal lattaio e si riutilizza. Si ricicla tutto non si butta niente in questa Italia anni sessanta.
IL PRESTINO
Questo è il regno di mio padre. È come un mago. Mescola acqua e farina. Poi una polvere magica. Mescola impasta gonfia. È nata la pasta una palla grossissima che solo lui riesce ad abbracciare. Mi piace la pasta è come una ciccia ci puoi giocare e fare tante cose. Palline soprattutto ma anche nuvole o animali tipo maialini. Ma la pasta non è fatta per giocare ma per fare il pane. Bisogna tagliare quell’enorme pancione in tanti pezzi e poi fare il pane. Con le mani e con le macchine. Guardo con attenzione. Cerco di imparare. Non mi fanno avvicinare troppo alle macchine. Soprattutto all’impastatrice, molto pericolosa. Mi sognavo di notte di cadere nell’impastatrice e diventare una pagnottella. È un lavoro difficile bisogna tagliare arrotolare spianare. Preparare tante forme piccole grandi e medie. Poi bisogna mettere le forme bianche sulle padelle nere. Ma non a caso. È come una specie di scacchiera. Ogni pezzo il suo spazio. Poi si inforna e si aspetta. Al momento giusto si sforna. Le forme bianche escono diverse. Adesso sono colorate e profumate. Scivolano verso un cestone. Tutte uguali e tutte diverse. Corro verso il cestone, ne prendo una. Scotta! Bisogna aspettare un attimo. Poi si possono anche mangiare e sono tanto buone.
TOPOLINI
Pane è una parola sola ma sono tanti i tipi di pane. Ogni cesta il suo pane. E ci sono diversi tipi di ceste, ma non è facile distinguerle. Perché mio papà grida “cesta!” io ne porto una ma non va bene. Tutte però sono in vimini. Li ha fatti mio zio Paul che fa il cavagnin a Ganna. Molto lontano. L’ho visto due o tre volte. Imparo subito i nomi del pane. Ci sono michette spaccatelle, trecce, topolini, biove, bur-bur, francesini, mantovane, banane, bastoni piuma, cornetti, pane misto, pan segroso… Ogni nome una forma. Ogni nome una consistenza un sapore diverso. Mi sono simpatiche le spaccatelle. Mi piacciono i topolini, ci gioco e poi una volta cotti me li mangio. Ma sono buoni anche i cornetti croccanti. Il pane misto ha la forma di un disco volante. Mi piace solo tagliato a fette nel brodo. Diventa zuppa, che bontà! Nel prestino c’è anche il forno. È grande con tante aperture davanti Sono come delle finestrine e si muovono a scatto. È caldo tanto caldo. D’inverno si sta bene vicino al forno. D’estate no. Mio padre inforna. Ci vuole occhio forza e determinazione. La pala è lunghissima (quattro o cinque volte la mia altezza). E pesa. Non vedo l’ora di sostituire mio padre. Ma non glielo dico.
MADRI
Un giorno avevo avuto la forza di attraversare la piazza per entrare all’Asilo Sant’Anna, luogo che intuivo pieno di pericoli e misteri. Non era stato facile lasciare di nuovo i miei genitori, la casa, il go-kart. Si trattava solo di poche decine di metri, ma era come attraversare l’oceano. Poi l’incontro con quelle suore, dall’abito strano che mi ricordavano personaggi di favole raccontatemi non so da chi. Non erano ben definibili, a metà strada tra zie che non avevo mai conosciuto (ma che sembravano conoscermi bene) e inflessibili guardiane. Mi dicevano sempre cosa dovevo fare e questo non mi piaceva. Nomi. Madre Antonia. Pelle scura come un’indiana. Occhiali. Direttrice. Severa. Tanto severa che aveva i baffi. Uno studio elegante un tavolino d’oro. Ricordo una recita. Una poesia? Devo avere da qualche parte una fotografia. Sono i nomi a trascinare i volti. Madre Ida. Simpatica. Guance rosse. Avrebbe potuto essere una brava zia. Chissà perché si chiamavano madri. Quante mamme avevo? Mamma Paolina mamma Franca… Altro non ricordo se non una strana somiglianza fra loro e la madonna. Cambiava il colore, ma la divisa era la stessa.
VIVA I MAGGIOLINI
Per fortuna oltre il portone c’era un continente da scoprire. Ricordo il giardino dell’Asilo che allora mi pareva immenso, definito da vialetti di ghiaia su cui era bello camminare. Mi piaceva il rumore, mi piaceva quella specie di dondolio. Un’insicurezza deliziosa. In fondo a un vialetto c’era la grotta della Madonna. Era più piccola delle madri ma dovevano essere parenti. Ma lei era più bella. E più giovane. Lì nel cortile c’erano i roseti. Mi piaceva metterci il naso, fra i petali delle rose. Ma dovevo alzarmi in punta di piedi, stando attento alle spine. Profumini delicati un poco di aspro. Le api che gironzolavano. Le vespe. Non ho mai avuto paura. I maggiolini delle rose. Piccoli cioccolatini volanti. Noccioline aerospaziali. Fragoline con la latticella. Li facevo scorrere sul dito. Solletico leggero. Poi aprivano le ali e arrivederci. La grande magnolia. Con le foglie verdi, lucide smaltate. Fiori bianchi, grandi. Petali morbidi morbidi. Nessun odore. Tutto racchiuso in pochi metri che invece sembravano infiniti.
CIAO PASSEROTTO
Ciao passerotto Asilo S. Anna. Non ricordo nulla degli interni se non la direzione. Credo che debba essere successo qualcosa. I baffi di madre Antonia che vibrano di rabbia. Mia madre vicina a me in piedi. Forse avevo rubato un pezzo di legno colorato di verde. Una parte di un gioco che volevo finire a casa. Nebbie. Ricordo solo un compagno perché aveva il mio cognome e mi confondevano. Ma lui era più ricco di me e infatti si chiamava Brambilla-Pisoni. E poi lui era biondo, io no. Invece ricordo bene il cortile con le colonne e dei portici e i vialetti di ghiaia. Passeri & magnolie. Una specie di ditta che credevo felice. Invece proprio lì un giorno avvenne l’incontro con la morte. Era solo un uccellino probabilmente caduto dal grande albero-casa. A me quel piccolo essere che non si muoveva né cantava fece uno strano effetto. Era leggero come una delle sue piume, avrebbe potuto risvegliarsi e riprendere il volo sollevato da un fremito dell’aria. Ma non aveva più voglia di vivere. Senza farci scoprire dalle suore, scavammo una piccola buca. Ciao passerotto. Se hai bisogno di qualcosa fammi un fischio.
BIBLIOTECA
Oltre il forno e il negozio con la sua merce in bell’ordine: pane pasta biscotti, non ricordo quasi niente. Eppure c’era una casa sopra il negozio. Un luogo che usavamo solo per dormire, credo. Vagamente intravedo il lettone e un grande armadio. Poi il nulla. Probabilmente quando salivo per dormire ero stanco morto. Go-kart, asilo, go-kart e altro. Buonanotte! Ah sì, ricordo che per fare i bisogni si doveva uscire sul corridoio. In fondo c’era il cesso, piccolo e maleodorante. Ricordo i pezzi di carta appesi a un gancio. Non sapevo leggere ma mi divertivo a guardare quei foglietti di carta e inchiostro. Una specie di bibliotechina popolare itinerante. Ogni tanto c’erano pezzi di fotografia, disegni incompiuti. Io a volte li rubavo e me li mettevo da parte. Non si buttava niente in quell’Italia che si affacciava agli anni sessanta! Ogni tanto mi chiedo chi era che aveva la pazienza di ritagliare quei fogli e di metterli ogni giorno sul chiodo. Perché erano sempre diversi. C’era sempre qualche sorpresina nel cesso.
IL MASTELLO
Poco o nulla mi ricordo del vecchio umido cortile. Era fatto di sassi, tipo rizzata ma molto sconnesso con qualche tratto rappezzato alla buona. Non mi ricordo quasi mai il sole. Però un ricordo ce l’ho bello fissato nella testa come un chiodo. E anche mia mamma se lo ricorda ancora bene. Come i bambini di allora ero quasi sempre fuori a giocare, oppure al bar del Cesarino. Non avevamo né gabinetto né bagno in casa e per lavarsi ci si arrangiava. Però almeno una volta al mese mia mamma mi faceva un bel bagno. Bello mica tanto, a dire la verità. Perché non mi piaceva proprio fare il bagno. D’estate metteva un enorme mastello in cortile, lo riempiva d’acqua. Poi con l’aiuto di mio papà mi immergeva a forza. Il mastello era alto e io in piedi avevo fuori solo la testa. Poi incominciava una lunga insaponata e una pulitura a fondo. Alla fine tutto lo sporco rimaneva nel mastello. Mia mamma mi diceva: “Finito. Eri proprio sporco, guarda quanto rudo ti ho tolto!” A quella frase piena di soddisfazione, io scoppiavo in lacrime e gridavo. “Ueeeé ueeeè, voglio il mio rudo! perché mi avete preso il mio rudo?” Mia madre non mi ascoltava e buttava il contenuto del mastello nel tombino. Io continuavo a piangere e mi sentivo derubato. Avevo già sviluppato un forte senso della proprietà.
LEONE
Nel cortile avevo solo un amico, Leone. Un gattone di pelo rosso, bello grasso. Viveva lì e andava dove trovava da mangiare. Non si faceva però troppo accarezzare. Chissà chi era il suo padrone. Era un compagno silenzioso e poco invadente. Si vedeva di solito ai pasti. Arrivava silenzioso con il suo procedere elegante e molto dignitoso. Non chiedeva mai nulla, solo quello che gli spettava. Non l’ho mai sentito piangere. Era un vero signore. Quando arrivava noi dicevamo sempre “ecco Leone!”. Come se fosse lo zio Paulin o il signor Cesarino. Uno di casa, insomma. Dalla tavola scendeva allora qualche bocconcino. Lui mangiava con calma, soddisfatto, e se ne andava. Con l’aria di uno che ha piuttosto dato che preso. Dopo il pasto io gli dicevo: “Ciao Leone”. Ci vediamo, vero?” Lui mi guardava come per dirmi: “Dove vuoi che vada, certo che ci vediamo piccolino!” Tutto a posto, se c’è Leone. Tutto a posto, la sua presenza era per me come un calendario, era trascorso un altro giorno e potevo dormire tranquillo. Chissà che fine avrà fatto. Se c’è un paradiso dei gatti, sarà di sicuro lì a farsi qualche bocconcino prelibato.
IL MAGNAN
Che strano. Mi ricordo solo di lui, di Leone. Gli altri abitanti del cortile sono come fantasmi. Puri movimenti, gesti senza volto né parole. Braccia che spostavano le casse per esempio. Mani che stendevano i panni. Ricordo invece l’irruzione improvvisa nel cortile – bastava spingere il portone e si entrava – di personaggi che sembravano venire da lontano. Mondi antichi, sperduti. Che mi davano un senso di nostalgia e anche un poco di timore. Entravano con le vecchie biciclette senza neanche scendere di sella. Era il loro grido, cadenzato, magico, ad annunciarli. “Magnàn mi sun il magnàn gente, magnàn!” “Muléta muléta donne!” Personaggi strani senza età. Li ricordo sporchi, neri per il loro lavoro. Con dei baffoni e un cappellaccio. E con quelle biciclette pesanti dove c’era il loro piccolo laboratorio, di solito una piccola mola che azionavano con i pedali. Riparavano pentole, mestoli posate e ogni altro utensile di metallo. Affilavano coltelli. C’erano poi venditori ambulanti di saponette pettini lamette braccialetti collanine orologi e mille altre cose. Uno di loro aveva un carretto tirato da un cavallo. Venivano da lontano. D’estate e d’inverno. Sono stati risucchiati nel tempo, nel passato.
IL SIGNOR CESARINO
Se non andavo all’asilo o a scuola, spesso mi rifugiavo nel bar del signor Cesarino, che era di fianco al nostro negozio, con un accesso anche dal cortile. Era un pò come un nonno, il signor Cesarino. Un uomo non molto alto, brizzolato e brillantinato tipo attori del cinema, sigaretta in bocca. Un pò come mio padre ma più anziano. E molto molto simpatico. Mi accoglieva nel bar come un figliolo o un nipote. Io rimanevo molte ore, finché qualcuno non mi obbligava a rientrare in casa. Cercavo di non dare fastidio e di osservare tutto ciò che potevo. Il bar allora era una miniera. Stava cambiando il mondo e il cambiamento passava da lì. C’era un calciobalilla molto bello, non come quelli dell’oratorio. Si metteva la monetina e scendevano dieci palline. Ricordo il suono nella cassa quando scendevano a grappoli. Una specie di risonanza magnetica. Imparavo molto dai campioni del bar. Come chiudere in difesa, il pressing a centrocampo, i ‘ganci’ in attacco. Studiavo le mosse dei 22, i blu e i rossi. Lo schema era fisso, un 1-2-5-3, ma si potevano fare tante variazioni. Ho visto costruire delle azioni formidabili! Non c’era l’arbitro e ogni tanto ci si arrabbiava, soprattutto per la sfortuna o gli errori del compagno. Si giocava per ore intere, finché c’erano i soldi. Io allora ne approfittavo per studiare qualche schema, rivedere mentalmente le azioni più interessanti. Se proprio non c’era nessuno, al mattino, imparavo di nascosto a usare le manopole. Se per caso ti scappavano eri considerato un incapace e non potevi più giocare in quel bar. Finito. È lì che ho imparato le prime parolacce. Ma anche da mio padre che ogni tanto si infuriava quando faceva il pane e c’era qualche problema.
QUATTRO GUSTI
Il signor Cesarino faceva anche il gelato e il suo locale era famoso soprattutto per quello. Il gelato del Ciuèn era noto in tutta Busto. Forseanche a Castellanza. I gusti disponibili erano quattro. Ma il meglio era crema e cioccolato. A me piaceva molto la crema e ogni tanto mi gustavo una bella coppetta, “solo crema”, grazie. D’estate si mangiava anche il gusto limone e la fragola. Di fragola sapeva poco, però era rosso fragola. Il limone era tipo granita. È stato al bar del Cesarino che ho bevuto il mio primo chinotto. Un pò amaro, ma faceva molto “grande”, come bere il ginger. Se non bevevi il ginger eri ancora un lattante. Più avanti devo aver provato la cedrata Tassoni, che invece era dolce e aveva un colore giallo-verde bellissimo. Peccato berlo! La Coca cola l’ho bevuta per la prima volta a casa. Non so per quale ragione mio papà era diventato un gran bevitore di quella bibita. Ricordo che appena possibile era passato alle bottiglie da litro e ne beveva 6 a settimana. Quindi se potevo scegliere preferivo bere al bar qualcosa di diverso, ad esempio una Pepsi-cola o una bella aranciata Oransoda. Quando, anni dopo, sarei andato all’oratorio, in fatto di bibite ne sapevo più degli altri. Loro i piccolini erano ancora fermi alla gasosa . Ma non eranostati all’università di piazza Trento e Trieste!
CANZONI
Stava cambiando il mondo, e passava da lì, dal bar del signor Cesarino. Non erano solo le bibite che sostituivano a tavola l’acqua Idrolitina, quella che faceva le bollicine. No, le novità erano altre. Ad esempio il giubòss , uno scatolone di ferro e plastica dove c’erano tanti dischi. Tu mettevi la moneta, impostavi il programma, il disco saliva, si posizionava e… suonava! Le prime volte lo guardavo come si guarda un’astronave. Non avevo mai visto un disco ed ora ne vedevo cento insieme. E mossi da una manina meccanica. Ciao ciao piccolo mio. È lì, dal Cesarino, che ho ascoltato le prime canzoni con i ritornelli che ancora mi frullano in testa. Come “Marina Marina Marina ti voglio al più presto sposar! O mia bella mora no non mi lasciare non mi devi rovinare…“. Mi piaceva tanto Celentano e speravo sempre che fosse lui il prescelto, dai ti prego…. Fai che il Biondo scelga Celentano… “Il tuo bacio è come un rock che mi fulmina sul ring” mi apriva nuovi mondi. A cominciare dalla parola rock . Però quando davo un bacio alla mamma nonla fulminavo, io. E anche ventiquattromila baci non erano male. E dovevano essere proprio tanti e non vedevo l’ora di saper contarli! Al bar del Cesarino ho anche imparato che c’erano altre lingue, oltre all’italiano e al dialetto, che ormai avevo scordato. Pensate che c’erano canzoni cantate in francese e persino in inglese! Quando chiedevo spiegazioni, nessuno però me le dava. Capivo che erano cose per grandi e mi tenevo i miei dubbi. Parapunzipunzipò.
FLIPPER
Oltre al calciobalilla e al giubòss , dal Cesarino c’era il Flipper . Era unaspecie di tavolo su quattro gambe. Però non era in piano. E quel che più conta era magico. Si accendeva in continuazione ora qui ora là e creava tanti disegni e faceva anche dei suoni, tipo campanelli. C’erano anche delle parole, ma in inglese. Si giocava con una moneta. Poi il flipper si accendeva e incominciava il gioco. Dagli angoli o dal centro arrivava a sorpresa una pallina che scendeva scendeva a precipizio verso i buchi. Tu dovevi mantenerla in gioco con dei pulsanti che rilanciavano la pallina. Poi c’erano i funghetti di gomma che la respingevano e tante altre possibilità. L’importante era non far cadere la pallina. Perché se non cadeva faceva tanti punti e così continuavi a giocare. Ci giocavano solo i grandi. Abbracciavano il flipper e si aiutavano con le mani con le gambe con la pancia coi fianchi pur di non far cadere quella benedettissima sferetta d’acciaio. Se però spingevi troppo il flipper , si spegneva. La partita era finita tu perdevi. Qualcuno allora andava dal signor Cesarino per riavere i soldi, ma quasi mai ci riusciva. Non era mica fesso il signor Cesarino! Se facevi tanti punti non si vincevano soldi, ma avevi il titolo di “Campione”. E potevi giocare a lungo. C’era chi con un gettone riusciva a continuare per tanto tanto tempo tipo mezz’ora. Ma a volte la partita durava poco tempo e la gente s’arrabbiava. Allora se la prendeva con il povero flipper.
LA TELEVISIONE
All’inizio noi eravamo poveri. Così almeno mi diceva mio papà quando gli chiedevo qualcosa. A casa nostra la televisione arrivò tardi. Ma a me non importava un fico secco. Perché c’era il bar del Cesarino. Lì con i flipper e i giubòss non poteva certo mancare la televisione! Alla sera i miei erano stanchi morti e c’era sempre qualcosa da fare. E poi mio papà si alzava di notte per fare il pane. E dormiva il pomeriggio. Tutto il contrario della gente normale. La cicogna mi aveva portato una sorellina e mia mamma tra casa negozio e la piccolina non poteva badare a me. Appena finito di cenare io dunque me ne andavo al bar del Cesarino dove la televisione era già accesa. La scatola magica era posizionata in alto. C’erano delle sedie e si guardava come al cinema. Ma non si vedeva molto bene. Bianco e nero e a volte tanti puntini. Voci dall’aldilà. C’erano tanti programmi di canzoni e di ballerine. Mi devo essere innamorato allora per la prima volta. Della signorina Ebbilein. Non so però se il nome l’ho scritto bene. Quello di cui sono sicuro è che lei a sentire i presenti aveva tanti fidanzati. E questo non era tanto bello e mi faceva molto arrabbiare. Altro che Carosello ! Io non volevo mai andare a letto a dormire perché volevo vedere la mia fidanzata. E darle almeno un bacino. Uno, non dico ventiquattromila! Mia mamma veniva a prendermi al bar verso le 10 di sera. Credo fosse un record perché al massimo facevo la seconda elementare!
LA PRO PATRIA
Mio papà era molto ma molto moderno. E molto ma molto sportivo. Tutte le mattine leggeva la “Gazzetta dello Sport”. E aveva fatto il ciclista. E aveva giocato al campetto come portiere. Io non sapevo ancora leggere, ma facevo finta di sfogliare la “Gazzetta” che aveva le pagine rosa. Credevo fosse un giornale da donne ma mio papà mi ha rassicurato. NO! “La Gazzetta” è il giornale degli sportivi! Meno male. In casa si ascoltava spesso la radio, soprattutto partite e giri d’Italia. Mio papà mi spiegava le cose per benino. E poi c’era il bar del Cesarino dove c’erano tanti sportivi. Si parlava anche lì di calcio. Juventus-Milan-Inter. Io ascoltavo e ogni tanto facevo domande. Tutti erano gentili e parlavano volentieri di sport. Però c’era un problema. Molto grosso. Tutti tenevano a qualche squadra, io no. Eppure avevo già la fidanzata, anche se non era italiana. Dovevo scegliermi una squadra, se no non potevo parlare. Mio papà teneva per la Juventus e per la Pro Patria. Che è la squadra della mia città. Ed era una squadra molto forte e faceva la serie B che viene subito dopo la A e si vede anche alla televisione. Ma mio papà mi diceva che la Pro Patria era stata anche in A. E aveva battuto anche il Milan e l’Inter. E persino la Juventus. Ecco fatto. Avevo il mio cantante preferito. Celentano. Avevo la fidanzata, Ebbilein. Ora avevo anche la mia squadra. La Pro Patria!
AUTOMOBILI
Mio papà era molto sportivo e molto moderno. Aveva fatto le sue esperienze. Bicicletta, bicicletta da corsa. Con il suo amico Italo faceva tante corse. E andava da Busto Arsizio a Novi Ligure. Molto distante. Perché fin là non lo so. Ma a mio papà piaceva molto il cioccolato. E a Novi c’era una fabbrica. Di cioccolato, dico. Doveva essere molto goloso per fare tanta strada! Dopo la bicicletta si era fatto una motoretta poi una moto più grossa. Poi era passato all’automobile. Si era comprato a rate una bella macchina tipo giardinetta, in ferro e in legno e con un bel motore. Erano in pochi ad avercela! Io ero contento perché allora voleva dire che non eravamo più poveri e infatti mio papà mi regalò un go-kart rosso a pedali. Ero diventato anch’io uno sportivo! In Piazza Trento Trieste angolo via Roma, non c’era posto per la nostra bella giardinetta. Allora bisognava portare la macchina in un garage. Ce n’era uno vicino casa, all’inizio di via Mazzini, angolo via Foscolo. Il padrone era il signor Mario. Alto robusto con una bella tuta blu, tipo quella dei piloti. Molto simpatico anche lui, sempre disponibile. Io accompagnavo mio papà al garage che aveva un odore molto piacevole di benzina. Il signor Mario dava le chiavi al mio papà e andavamo a prenderci la nostra giardinetta. Il garage era molto grande e conteneva molte automobili, anche straniere. Ma erano di italiani e anzi stavano a Busto. Papà mi mostrava le auto e io chiedevo le marche i nomi e soprattutto la velocità. La nostra macchina era tra le più belle ma poi mio papà ha comprato una Fiat 1100 di colore blu. Aveva le gomme bianche con una striscia nera. Dentro era tutta scintillante e aveva un buon odore di nuovo. Che meraviglia! Era un buon segno. E infatti mio papà mi regalò una biciclettina rossa.
IL SIGNOR AVAI
Ero ormai troppo grande per il go-kart e infatti ci entravo a fatica. E poi quella biciclettina rossa la sognavo da tanto ma tanto tempo. L’avevo adocchiata un giorno e mi era subito piaciuta. E penso che anche lei sia stata colpita dal mio sguardo. E ha pensato di aver trovato un padroncino come si deve. Appena potevo andavo a controllare se c’era ancora in vetrina. Me la mangiavo con gli occhi e le parlavo dicendole che doveva avere pazienza. Un giorno non c’era più in vetrina e mi sono messo a piangere. Per fortuna l’avevano solo spostata. Ero diventato grande e andavo già a scuola. Ora potevo leggere tutte le insegne dei negozi. Ad esempio BICICLETTE E CICLOMOTORI. Era lì che vendevano la mia biciclettina. Perché quel negozio era del signor Avai. Di professione grande ciclista. Non faceva le gare, però. Riparava e vendeva biciclette e motorini. Ciclista appunto. Il suo negozio era vicino a casa mia. Bastava uscire dal bar del signor Cesarino, superare un negozio di tessuti (roba da donne) svoltare l’angolo a destra… superare il negozio del signor Pellegatta Timbri e Incisioni (ho sempre pensato che tutto fosse parte del cognome) ed eccoci arrivati! Fuori del negozio c’erano le biciclette da riparare o già riparate. E quasi sempre c’era il signor Avai che lavorava. Ma aveva anche un piccolo locale dove vendeva le biciclette e i motorini. Lì c’era la mia bellissima bicicletta rossa.
IL CONSULTO
Era molto ma molto alto e magro il signor Avai. E aveva un grembiule nero come quello delle bidelle. Ma più lungo e più sporco. E anche le mani erano quasi sempre sporche di olio e di grasso. Così invece di darti la mano ti dava il dito meno unto. Non parlava tanto il signor Avai ma aveva un sorriso gentile. Nel negozio aveva un piccolo laboratorio pieno zeppissimo di cose. Pezzi di biciclette e motorini catene selle ruote copertoni budelli. E poi tanti ma tanti attrezzi tipo chiavi inglesi e italiane e martelli e pompe e ingranaggi vari. Una volta riparate, le biciclette erano depositate sul marciapiedi davanti al negozio e avevano un bigliettino nei raggi. Quello era il conto, scritto a mano con una bellissima grafia. Il momento più di batticuore era quando la mia biciclettina aveva qualche problema. Per esempio una foratura. Io allora la portavo dal signor Avai come si porta un malato all’ospedale. Di solito lo trovavo inginocchiato a riparare qualcosa. In quella posizione era solo un poco più alto di me. Io però aspettavo senza dire niente, per timidezza. Lui continuava a lavorare facendo finta di non avermi visto. Dopo qualche minuto mi rivolgeva la parola. Io gli spiegavo il problema. Lui mi diceva “mettila là che poi la guardo”. Io a fatica chiedevo: “quando potrà essere pronta?” Lui mi rispondeva secco: “sabato pomeriggio”. Io non dicevo nulla ma il mio sguardo era eloquente, non potevo aspettare tre giorni! Allora il signor Avai senza mai alzarsi mi diceva: “Va beh, vieni domani pomeriggio, vediamo cosa si può fare!” Questo sì che è ragionare, pensavo.
SALI & TABACCHI
Poco oltre il negozio del ciclista c’era un angolo e si apriva un altro mondo. Pochi passi dopo l’angolo c’era una Tabaccheria. Molto ordinata e pulita con un padrone che era un pò gobbo ma mi era simpatico. E poi c’era sua moglie. Bionda. Doveva essere stata lei a mettere in ordine i pacchettini di vario colore, tutti impilati alla perfezione. Tu dicevi un nome e… zac il tabaccaio sceglieva con sicurezza la fila ed estraeva quello che volevi! Ci andavo per comprare il sale fino o quello grosso. E le sigarette di mio padre, che fumava tanto. Nazionali esportazione due pacchetti, grazie! E i cerini, mi stavo dimenticando. Soprattutto andavo fin lì – stai attento! mi diceva la mamma – per respirare in quella stanzetta semibuia l’odore del tabacco. E dei francobolli. Un odore indescrivibile, particolare. Proprio quei rettangolini colorati suscitavano la mia meraviglia. Se riuscivo rimanevo apposta nel negozio per attendere il gesto rapido di apertura di un album nero, da cui il negoziante staccava con mano sicura i francobolli richiesti. Piccoli colorati con dei disegnini. Non capivo perché si incollavano su delle buste bianche. Il tabaccaio aveva una specie di spugna per incollarli. Ma chi aveva fretta lo faceva con una grande leccata, tipo cono di gelato.
LE LASAGNE
Eh sì, come dice la canzone “Domenica è sempre domenica”. Non si va a scuola e a me piace stare un pò di più a letto. Soprattutto d’estate. Dalla finestra c’è un gioco strano di luci e di ombre. Come un teatrino cinese. E poi le tapparelle sono come un traforo. Come le vetrate di una chiesa. E le campane di San Giovanni suonano per la messa. E anche quelle di santa Maria. Un bel concertino tutto per me. Non dormo più ma rimango a vedere la gibigiana sul soffitto. È come al cinema e non costa niente e sei tanto comodo. E c’è pure la musica! Dalla finestra si vede l’azzurro. Come è bella la vita! La domenica è un giorno speciale. E io ho un compito speciale. Verso le 11 devo andare dal Nembri a prendere le lasagne! Il signor Nembri ha un negozio che vende roba da mangiare squisitissima. Dal negozio la strada non è molta. Esco dal cortile di via Roma e corro al suo negozio dove ci sono cose buonissime tipo polli allo spiedo e salame prosciutti insalata russa. Ma ogni domenica io compro la nostra vaschetta. Di lasagne. Verdi. Con il sugo. Buonissime. Prendo il mio sacchetto, pago alla cassa e faccio una volata tutta d’un fiato. Siamo tutti insieme la domenica. Intorno alle lasagne verdi del Nembri. Mio papà le cuoce nel forno. Hanno una crosticina buonissima. Ma anche dentro sono buonissime. Voglio la porzione più grossa!
IL GRAPPOLO D’ORO
Quando sono diventato un pò più grande, ho incominciato ad aiutare in negozio e nel forno. Una delle cose che mi piacevano di più era portare il pane ai clienti. Così mi sentivo importante Io ogni giorno chiedevo a mia mamma: “E il pane del signor Tarantino?”. Non vedevo l’ora di portarglielo, ma non era facile. Perché il pane del signor Tarantino era un grosso sacco di circa due chili. Uno sforzo enorme per un bimbetto. Per questo motivo ci potevo andare solo nei casi disperati, se non c’era proprio nessuno che poteva andarci, oppure se aveva bisogno di qualcosa in più, una forma di pane misto, due o tre bastoni piuma. Il pane del signor Tarantino era solo un pretesto per compiere un viaggio di fiaba. Ogni volta uguale e diverso. Il signor Tarantino era infatti il proprietario della “Bella Napoli” un posto bellissimissimo dove si imbottigliava e si vendeva il vino. Io costeggiavo il lato dell’Asilo Sant’Anna fino in fondo, attraversavo la via Manara e a pochi passi avevo una delle più grandi meraviglie di Busto. Quando entravo non c’era mai nessuno e io dovevo gridare “Signora! Signora!”. Dopo un pò arrivava la signora con i capelli lunghi neri coi boccoli. Le consegnavo il pane, lei mi sorrideva e tutto era finito. Ma io non la chiamavo subito. No. Entravo ed ero affascinato dai vetri colorati, dai dipinti alle pareti, che raccontavano di vendemmie e di storie legate alla vite ed al vino. Rimanevo lì in silenzio, a guardare e a sognare. Ma c’era una cosa una cosa… straordinaria. Io entravo chiudevo apposta gli occhi e guardavo in alto… Sì, c’era ancora, non era un sogno… che bellezza! Appeso al soffitto, come se fosse un gigantesco lampadario c’era un grandissimissimo grappolo d’uva con gli acini enormi. Tutti d’oro. Giurìn giuretta.
GUADINO!
Il passatempo preferito da mio papà Piero era la pesca. Appena poteva scappava “alla Centrale” a fare una pescatina. Prendeva persici temoli barbi e anche qualche bella trota. Lui era molto geloso della sua attrezzatura. Aveva due canne e tre mulinelli. E poi tante scatoline di plastica dove metteva ami di vario genere. E mosche finte e cagnotti finti. I pesci li mangiavano e restavano impigliati all’amo. Non voleva che mi avvicinassi alla sua attrezzatura forse per paura che mi facessi male. Però io ogni tanto lo accompagnavo con mia mamma a pescare. Io mi annoiavo molto e passavo il tempo a rincorrere farfalle. E soprattutto libellule. Che erano come dei piccoli elicotteri. Difficilissimi da prendere. Bisognava lasciarle posare e poi afferrarle con due dita. Ogni tanto chiedevo a mio padre: “abboccano?”. Ma mia papà mi diceva di stare zitto perché i pesci ci ascoltano e scappano. L’unico momento divertente era quando i pesci abboccavano e bisognava prenderli nel retino. Allora mio papà urlava “guadino!”. Mia mamma era però sempre distratta e ora che arrivava il pesce se n’era andato. Allora mio papà se la prendeva con mia mamma. Ma solo per poco perché poi mia mamma smetteva di leggere e stava lì pronta. E alla sera qualcosa nel guadino c’era. Sempre.
LA RANZATA
Ormai Piazza Trento Trieste non aveva più segreti per me. Altro che Asilo S. Anna! Ora attraversavo da solo la piazza, fino alle Scuole De Amicis e anche oltre. Verso la cappellina di via Daniele Crespi, per esempio, e anche più avanti fin quasi in piazza Garibaldi. Lì vicino c’era il mio parrucchiere, che si chiamava Mugnaini. Il giorno del parrucchiere era il sabato pomeriggio. A me non piaceva tagliare i capelli, ma ogni sei mesi bisognava fare una bella ranzata . Per rinforzare i capelli, diceva la mamma. E anche per evitare le pulci e altri animaletti molto fastidiosi. Uscivo di casa verso le quattro. Quando entravo in negozio il parrucchiere e il suo aiutante mi salutavano come se fossi un grande. Io mi sedevo e aspettavo il mio turno. Lì c’erano dei giornalini e delle riviste con le donne nude. Mi attraevano molto. Ma avevo vergogna a guardarli. Così mi accontentavo di dare un’occhiatina alle copertine. Il parrucchiere ogni tanto mi lanciava uno sguardo. Io non sapevo cosa fare e diventavo tutto rosso. Io ascoltavo tutti i discorsi ma dopo un pò mi annoiavo. Poi veniva il mio turno. Andavo sulla poltrona come una pecora alla tosatura. Chiudevo gli occhi e respiravo forte. “Come al solito?” chiedeva. Io mormoravo un sì poco convinto. Lavorava con una specie di macchinetta e poi rifiniva con la forbice. In un quarto d’ora tutto era finito. Mi davano una bella spazzolatina, pagavo e via di corsa verso casa. Per qualche ora mi sarebbero rimasti dei capelli nella magliettina che mi davano molto ma molto fastidio. Ma poi non ci pensavo più. Passavano velocemente e i capelli ricrescevano in fretta!
IL NEGOZIO DEL MESCHIERI
Il grappolo d’oro della Bella Napoli era al primo posto nella mia classifica, ma intorno a Piazza Trento e Trieste c’erano anche altri posti molto belli dove io andavo molto ma molto volentieri. Per esempio ero molto contento quando mio padre mi diceva che dovevo fare un salto dal Meschieri, che vendeva cose di caccia & pesca. Bastava dire Meschieri. Era così stretto il legame fra il cognome e l’attività che per anni ho creduto che tutti i negozi di caccia & pesca si chiamassero Meschieri . Mio papà prendeva dallo scatolone di cartone una scatoletta di latta gialla dove aveva tante altre scatoline trasparenti. Ne prendeva una, ci metteva un amino e mi raccomandava di prenderne due uguali. Dal Meschieri. Oppure mi dava una mosca finta e mi diceva di prenderne una simile, ma se c’era più piccola e un pò più scura era meglio. Io mi mettevo la scatolina in tasca e andavo nel negozio del signor Meschieri. Arrivavo quasi di corsa davanti al negozio, prendevo la mia scatolina, ripassavo mentalmente gli ordini ricevuti ed entravo. Nel negozio c’era davvero tantissima merce in vendita. C’erano diversi tipi di fucili da caccia, cartucce, giubbotti, cappelli, stivali, reti, canne da pesca, mulinelli, fili da pesca. I colori dominanti erano il verde scuro ed il marrone. Io mi guardavo in giro con stupore e quando veniva il mio turno ero un pò intimidito e balbettavo. Ma il signor Meschieri, che conosceva bene mio papà, sorrideva e mi aiutava a ricordare. E poi c’era sempre la scatolina a salvarmi.
L’UOMO DEI CANARINI
Ogni giorno aggiungevo una piccola scoperta al mio piccolo mondo. L’itinerario preferito era andare sul lato del bar, girare l’angolo, attraversare la via, stando molto ma molto attento. Poi costeggiavo il lato dell’Asilo dove c’era il portone, viravo verso la chiesa di San Gregorio sino ad affacciarmi su via Ugo Foscolo. Stavo imparando ad andare in bicicletta e non mi avventuravo in strada. Preferivo addestrarmi sui marciapiedi o davanti alla chiesa dove c’era un pò di spazio. Ma non mi addentravo nei giardinetti di via Ugo Foscolo perché i miei non volevano. Ogni tanto attraversavo però la via per dare un’occhiatina al garage del signor Mario. Respiravo forte l’odore di benzina che mi dava un senso di benessere. Lì vicino c’era un negozio strano, che mi attraeva. Il proprietario doveva essere un ex giocatore della Pro Patria, Marelli, se non ricordo male. Un omone alto e robusto con la faccia sempre rossa. Era un negozio che vendeva animali. In particolare uccellini. Ci sono entrato due o tre volte per portare il pane. Superavi l’ingresso ed eri in un altro mondo. Decine di canarini pappagallini. Giallo arancione rosso verde bianco. Una gioia per gli occhi. E tante gabbiette di foggia diversa. Un odore forte di mangime e d’altro che mi nauseava. E un continuo cinguettio su tonalità diverse che mi stordiva. Avevo bisogno d’una bella boccata di benzina del signor Mario per riprendermi.
IL MERCATO
Dopo la Chiesa di San Gregorio si apriva a sinistra via Ugo Foscolo. Un lato era interamente occupato dai giardini con i vialetti pieni di ghiaia e sassolini. Che un pò mi sembravano il prolungamento dei vialetti dell’Asilo S. Anna. Ma molto più grandi. C’erano anche degli alberi delle panchine e una specie di laghetto, ma i miei ricordi sono un pò confusi. Mi ricordo però bene che lì c’era al sabato il mercato. Le prime volte potevo andarci solo se accompagnato. Mia mamma si accordava con una signora che mi accompagnava volentieri. Un’esplosione di colori. A cominciare dai teloni a righe. E poi le varie bancarelle. Vestiti scarpe formaggi salumi pesci cinture borse fiori frutta ortaggi pentole, che meraviglia! Avevo il vizio di fare molte domande alla signora che mi accompagnava e poi volevo toccare tutto. Era un modo per conoscere il mondo. Che era lì, a portata di naso. E di mano. Mi piaceva molto il bancone del pesce, dove c’erano i granchi vivi che si muovevano. E i pescioni mostruosi dall’occhio cotto. E gamberetti calamari cozze aragoste trote triglie… quanti nomi da imparare! Anche il bancone della frutta e della verdura era bello e colorato. Con tante varietà di pere di mele. E le banane arance limoni i mandarini. E le patate cavoli carote sedani peperoni rossi gialli e verdi pomodori insalate varie. E mi affascinavano le grida dei negozianti per attirare le signore. Belli limoni belli limoooni! Venghino signoooore venghinoooo! Pollo allo spiedo speciale pollo allo spiedoooo! Tre calze cento lire tre calzeee! Come era vario e bello il mondo!
LA ZINGARA
C’erano tante persone al mercato, soprattutto signore con una borsa grande per la spesa. E anziani e bambini che ogni tanto si perdevano e strillavano. Nel mercato si intrecciavano accenti diversi, soprattutto dei venditori. Che avevano facce un pò strane e anche più scure delle nostre. Chi lì sun i terùn, mi diceva la signora che mi accompagnava. Ma poi comprava da loro belli limoni o il pesce ed i terùn erano molto simpatici, soprattutto quando gridavano per invitare la gente a comprare. Chi mi piaceva poco erano gli zingari. Erano vestiti in modo colorato e diverso da noi. E anche piuttosto sporchi. Se le davi una monetina una signora vecchia e brutta ti leggeva la mano e ti diceva tutto. Avrei voluto chiederle della mia fidanzata Ebbilein ma avevo troppa paura. Mi piacevano gli odori del mercato. Quello del cuoio per esempio. E annusavo le borse e le cartelle e i borsellini e i portafogli e le cinture. Quello del pollo arrosto era buonissimo ma mi piaceva anche quello del pesce fritto. E anche di qualche formaggio. Ero molto incuriosito dei prezzi delle merci e li memorizzavo. Poi a casa incominciavo a raccontare tutto alla mamma. “Sai quanto costa un chilo di patate ? e mezzo chilo di carote? e un golfino blu da bambina come quello della Agnese? e un mazzo di fiori gialli?” Continuavo così finché mia madre sfinita mi rispondeva: “sai quanto costa un bel melotto?” E cercava di avvicinarsi per colpirmi… Io allora scappavo al bar del Cesarino a sentirmi un disco di Celentano per tirarmi su. Ma alla sera, prima di addormentarmi ricominciavo: “Sai quanto costa un chiletto di trote?”
Questo volume è stato stampato nel mese di novembre 2010 a Cavaria con Premezzo dalla tipografia Grafica Valdarno su carta Canaletto Grana Grossa gr 160 della cartiera Gruppo Cordenons SpA Di esso, 100 copie numerate a mano, contengono un’incisione originale