Il drago di pietra

Alberto Brambilla
Gilberto Squizzato

IL DRAGO DI PIETRA

soggetto per un tv movie in due puntate
ambientato in Lombardia e Canton Ticino
durante l’alto medioevo

settembre 2003

Il tema, le occasioni narrative, gli ambienti

Questo racconto per la TV , pensato per due puntate di 100 minuti, è insieme storico e fantastico. Si tratta infatti di una miniserie che, realizzata con la formula del “low budget”, vuole rievocare una stagione fascinosa dell’Alto Medioevo, quando nell’ottavo secolo l’allora Insubria vide l’incontro fra popoli e culture molto diversi e spesso in duro conflitto, mentre nel più vasto orizzonte europeo cominciava a prendere forma il nuovo impero carolingio e l’antica eredità artistica e culturale romano bizantina si preparava a fecondare la nuova società barbarica di questo territorio che andava dall’alta Lombardia al Ticino al Gottardo.
La specifica originalità di questo soggetto consiste di diversi elementi:
a) la forza suggestiva di una trama avvincente ed emozionante, articolata su alcuni personaggi esemplari e, a loro modo, epici, che vivono storie d’armi, di viaggi, d’amore;
b) l’utilizzo di ambientazioni naturali suggestive e spesso “vergini” ( grotte, boscaglie, dirupi alpini, ghiacciai, pascoli collinari, gole, laghi disabitati, paludi) tuttora ben conservati sia in Lombardia – specialmente nel Vare-sotto – che in Canton Ticino, capaci di evocare le suggestioni di un me-dioevo misterioso e avventuroso;
c) l’inserimento di scenografie architettoniche reali, costituite da siti di quell’epoca presenti nel territorio insubrico e tuttora ben conservati;
d) l’uso di linguaggi eterogenei da parte dei diversi personaggi di differente origine e cultura, che però riescono a comprendersi vicendevolmente dentro il racconto e a farsi comprendere dagli spettatori, sia grazie all’espressività dei gesti e alla chiarezza delle situazioni descritte, sia per merito di traduttori presenti nel racconto stesso ( già allora in funzione di “mediatori culturali” );
e) il mix dei generi ( la novella amorosa, l’epos militare, il giallo storico, l’indagine sul mistero) che tocca i temi più diversi, da quello religioso, a quello artistico, a quello socio-culturale;
f) l’inedita formula produttiva del racconto “fanta-storico” realizzato in re-gime di “low budget”, formula che non impedirà al film di presentarsi – grazie alle risorse del paesaggio, alla storia, alle atmosfere evocate- come un racconto altamente spettacolare e particolarmente suggestivo.

Una storia locale ma universale

L’ambizione di questo racconto televisivo
è duplice: da un lato esso si propone anzitutto la (ri)scoperta cinematografica di alcune fra le memorie specifiche e “locali” più avvincenti di un periodo epocale per la storia di questo territorio, quando all’ormai dissolta società romana si andò sostituendo la società romano-barbarica nata dal crogiuolo di popoli e culture diversis-
simi; nello stesso tempo questa storia, queste vicende, si propongono come esem-plari della sempiterno incontro-scontro fra popoli e culture diversi, non senza un implicito rimando all’attualità contemporanea che vede riproporsi in forme nuove questa problematica.
Si tratta dunque di un racconto che proprio quanto più circostanziato in una geografia naturale e umana dai contorni precisi e limitati ( quelli dell’Insubria, ma-trice della moderna “regio insubrica” che scavalca la frontiera italo svizzera per ac-comunare popolazioni di due diversi regioni e stati), tanto più assume caratteri di paradigmatica “universalità”.
Ma non va neppure dimenticato, accanto al tema principale, un secondo obbiettivo molto mirato di questa fiction televisiva: ci proponiamo infatti anche di riscoprire le bellezze molto spesso aspre, selvagge, ancora incredibilmente incon-taminate, di tante piccole isole dell’attuale Insubria, territorio che cela tesori am-bientali straordinari e affascinanti, sia in Svizzera che in Italia, anche se spesso ap-partati rispetto ai più noti itinerari del turismo storico e naturalistico di massa.

Il nostro racconto

Il nostro racconto si apre con un prologo (e si chiuderà forse con un congedo) che mette in scena il maggior scrittore lombardo, Alessandro Manzoni, alla scoperta lui stesso di questa storia ancora sepolta negli archivi di antiche inesplorate memorie. E lo stesso Manzoni potrebbe diventare forse il “narratore” al quale potremmo affidare la descrizione affabulatoria di altri eventi più generali , di ordine europeo, che meglio ci aiuteranno a capire quello che sta accadendo nella ridotta e appartata plaga dell’Insubria.
Eccoci dunque, in un autunno sfarzoso di colori intorno al 1830, mentre una barca partita dalla sponda piemontese del lago Maggiore, dove Manzoni possiede una delle sue ville di famiglia, accosta ai piedi dell’Eremo di Santa Caterina. Lo scrittore è vanuto a rendere omaggio alla tomba di Alberto da Besozzo, e studiare, per trarne ispirazione poetica, alcuni dei suoi affreschi. In particolare egli è però af-fascinato da una “Danza macabra”, dentro la quale gli pare perfino di riconoscere le fattezze di alcuni dei personaggi dei suoi Promessi Sposi. Ma soprattutto lo scrittore è salito fin quassù per consultare alcune pergamene depositate nell’archivio del Convento. Sta infatti preparando la stesura dell’Adelchi, e vuole sapere qualcosa di più preciso sui Longobardi. Quelle pergamene, che gli vengono tradotte da un amico filologo e paleografo che l’accompagna in questa esplorazione a ritroso nel tempo, gli forniranno elementi per meglio precisare la tragedia in fase di scrittura, ma forse anche per individuare le tracce di una nuova storia, di un altro romanzo che risalirà fino alle nebbie del medioevo… C’è infatti quel bassorilievo di quel misterioso Ulderico di cui nessuno sembra aver lasciato alcuna notizia certa, c’è l’immagine di quella ragazza di cui si legge solo il nome Gerda….
E qual’è dunque la storia di cui Manzoni ha rintracciato il filo, così difficile da dipanare?
E’ una storia che comincia in prossimità del Passo del Lucomagno, verso la fine dell’VIII secolo, quando un piccolo gruppo di guerrieri longobardi, capeggiati da Ulderico, e provenienti dal nord est dell’antica Elvezia, affronta i misteri tenebrosi dell’immensa foresta oltre la quale spera di trovare la pista che condurrà a Pavia, la capitale del regno di Rosmunda… Per essi Pavia è una città quasi leggendaria, un luogo mitico fascinoso che balugina nella loro fantasia fanciullesca di barbari in perpetuo nomadismo, una regione dove sognano di trovare finalmente anche per sé grandi case di pietra, alte come gli alberi più alti… Ma perché il duca di Pavia dovrebbe aprire porte e cuore a questa masnada di pellegrini armati che scendono dalle montagne ricchi solo della propria ignoranza e della propria impavida, selvaggia consuetudine alle armi? Perché Ulderico ha un dono prezioso di immenso valore da offrire al signore di Pavia: la propria bellissima figlia quattordicenne, Gerda dagli occhi di smeraldo ( così l’ha chiamata un indovino celtico esperto nei misteri e nelle magie delle pietre che da anni si è messo al seguito di Ulderico, per compiere una millenaria profezia che dovrò compiersi proprio in Gerda al compimento del quindicesimo anno di età…). E se Gerda riuscisse a far innamorare di sé il figlio del duca, anche per Ulderico la vita finalmente cambierebbe…

L’indovino che viaggia con il piccolo drappello longobardo porta con sé anche tanti altri misteri, soprattutto segreti del ghiaccio, della roccia e dell’acqua (i ghiacciai del Nufenen, le acque imperiose delle gole del Piottino)…. Da cascate, caverne misteriose, selve impenetrabili, miniere segrete, egli ha prelevato minerali, cristalli, pietre, legni, semi, cristalli, che ora costituiscono il tesoro dei suoi sortilegi continui, la sua fonte inesauribile di prodigi e di riti segreti….
La prima parte del racconto è dunque intessuta intorno al tema del viaggio e della scoperta, che è insieme quella di Ulderico e dello spettatore: scoperta di un mondo nuovo, per lui, di un medioevo fatto di ghiacci, foreste, cascate, per lo spet-tatore che verrà condotto ad ammirare con occhio stupefatto spettacoli naturali af-fascinati, visti ora con un occhio nuovo e incantato…: un modo per dire che quel medioevo era forse troppo primitivo e pronto a vedere il sovrannaturale e il magico ovunque, ma anche per suggerire il dubbio che forse il nostro moderno occhio di tu-risti frettolosi ha perso ogni capacità di vera fruizione estetica del mondo, ridotto solo a pretesto per filmati e foto ricordo… Come sono diversi infatti i “ricordi” dei nostri eroi, che custodiscono nella propria memoria le tracce di emozioni infantili ma profonde, le reliquie di commozioni cariche di sentimento e umanità!

Ma non è un viaggio idillico, si badi bene, quello della piccola schiera longo-barda (una decina d’uomini e quattro donne) accompagnata dall’indovino che cono-sce tutte la magie, perché un occhio li spia, una presenza misteriosa li pedina in ogni loro movimento dentro il labirinto del mondo sconosciuto che stanno attraversando… Quando giungono nei pressi della chiusa di Bellinzona (allora ancora sepolta dentro foreste immense) vengono attaccati da un manipolo di Franchi, avanguardia su questa impervia frontiera alpina dei nuovi dominatori venuti anch’essi da lontano, che hanno posto una guarnigione a presidio di quel punto strategico sulla pista fra nord e sud dell’Europa: la loro fortezza non è che un torrione arcigno e cupo, posto sopra una roccia imprendibile. E Ulderico, sebbene sfoderi coi suoi la rabbiosa disperata energia dell’animale che teme di finire intrappolato, non riesce a evitare una brutta ferita che da questo momento gli deturperà una guancia e gli toglierà la vista di un occhio: un prezzo che non rimpiange di aver pagato quando i sopravvissuti del suo manipolo gli confermeranno che Gerda è salva….

( Val qui la pena di precisare, a conferma dell’originalità del nostro progetto, che metafore visive – lance spezzate, fuochi, rivoli di sangue- ed effetti sonori –clangore di spade, nitriti di cavalli, urla disumane- prenderanno intenzionalmente il posto di quella che una fiction tradizionale tradurrebbe in una delle tante, ripetitive e costose battaglie che infarciscono le novelle televisive di ambientazione medieva-le. Non ci interessa “mostrare”, ma trasformare già da subito in racconto poetico , grazie ai canti del vate indovino, quella che in realtà non sarebbe se non una sca-ramuccia, in sé militarmente insignificante, ma decisiva e fatale per le sorti esistenziali dei nostri protagonisti.)

Ulderico e la figlia non possono tornare indietro, e non sanno neppure come trovare la via per Pavia, braccati come sono dai Franchi, e nell’impossibilità di pun-tare a nord dove gli Alemanni hanno preso possesso di tutte le terre che un tempo erano dei Reti: sono dunque costretti per settimane a vagare nei boschi, a tentare la via delle montagne meno impervie, seguendo solo la direzione del sole di mezzogiorno, fino a giungere finalmente in quella “terra dei laghi” da cui resteranno ammaliati, fin quasi a dimenticare la meta originaria del loro viaggio periglioso. Non è difficile immaginare che dopo i rigori delle scoscese ed aspre montagne ghiacciate, i tepori prealpini evochino nella loro mente l’immagine di divinità non ostili: ecco dunque che questa è per loro e per noi la scoperta di una terra benevola e gentile, in cui il sole fa sentire la sua carezza premurosa, la luna indugia sulle acque sognanti dei laghi incantati, gli alberi depongono la somiglianza con i giganti mostruosi del nord per diventare intrichi ricamati di foglie e di fiori, le nuvole propongono presagi di vita e non minacciano come in altritempi bufere e tempeste. Anche Gerda comincia a conoscere la felicità a contatto con una natura più benevola, e si fa amici gli insetti, gli uccelli, una capretta nera…. Anzi, proprio la sua attenta osservazione e il suo animo sensibile ci aprono gli occhi sulla infinita varietà di animali e di piante che popolano questa terra: i suoi occhi si incantano davanti alla viola palustre e alla drosera, fra ninfee e ibischi la fanciulla si perde ad ammirare il volo del Falco pescatore, del fischione, del pettazzurro, della cannaiola e dell’albanella, per i quali inventa nomi di fantasia…
Nel descrivere questo mondo quasi incantato, Canton Ticino, Alto Varesotto e territorio comasco ci offriranno mille suggestioni, dal Ceresio, ai laghi di Comabbio e Brabbia e Ghirla, alle grotte di Valganna, alle valli del luinese, agli ulivi della Tre-mezzina, via via attraverso le nebbiosità solari di Gandria, i panorami del San Sal-vatore, la cascata della Sovaglia e quella di Cittiglio, le colline di Marzio piuttosto che la val Piora o il lago Ritom… senza rinunciare magari agli enigmi incantatori che paralizzano gli sguardi increduli dei nuovi venuti: le pietre solari scolpite della Val Mara, un demone che affiora dalle rocce del monte Brè, le stalagmiti della grotta dell’Orso, il Motto delle streghe… tutte apparizioni su cui l’indovino si ingegna a or-dire i suoi esorcismi per ingraziarsi le divinità di queste terre, in realtà così generose di frutti, di selvaggina e di luce per la piccola banda di fuggitivi. La capretta e Gerda, soprattutto, ameranno seguire l’indovino nella pratica dei suoi ingenui sortilegi, scoprendo con lui altre meraviglie inspiegabili…

Ma come ogni paradiso anche questo subirà il morso del Diavolo invidioso della felicità umana: un giorno, sulle rive del lago di Ghirla, mentre gioca allegra-mente con la capretta, Gerda inciamperà in una radice e cadrà nel lago, inutilmente inseguita mentre scivola nelle acque cristalline e spietate di questo pezzo di cielo nascosto fra i boschi dal belato impotente e angosciato della capretta rimasta sola. Un ultimo grido raggiunge l’orecchio di Ulderico, impegnato a pescare non troppo lontano; ma quando il padre giunge sul posto, il lago ha già inghiottito la sua preda, lasciando sulla riva la crudele reliquia della ghirlanda di fiori che Gerda ogni giorno amava intessere per i propri capelli. L’urlo disperato di Ulderico, che scaraventa in acqua la capretta perché faccia compagnia alla figlia anche oltre la morte, rimbomba nella valle e rivela ai Franchi in agguato il nascondiglio del longobardo braccato. Ma questo di Ulderico è anche un urlo metaforico e “religioso” , a suo modo: è la rivolta di un padre ferito a morte da troppo ingiusto dolore contro una natura ingannevole, pronta a mascherare sotto la maschera di un volto generoso e di una carezza amorevole la sferza della morte inutilmente dissimulata.
Neppure la “terra dei laghi” ha mancato di tradire la speranza di Ulderico per una vita serena, dopo tanto combattere e tanto soffrire… Si è rotto un patto, si è spezzato un incantesimo: ancora una volta la maledizione si è compiuta, qui come in ogni creduto paradiso terrestre.

Ulderico, disperato, brancola con la scure nella boscaglia vendicandosi sugli alberi e sulle bestie che incontra, seminando morte e dolore in questo paradiso che l’ha tradito, finchè, giunta la notte, si rifugia in una grotta, dove spossato dalla stanchezza e dal furibondo dolore giunge quasi a perdere, progettando di uccidersi. Quello che era fino a poco prima un guerriero pronto ad ogni eroismo è ridotto a un brandello d’uomo, abbrutito dalla disperazione. Pavia è cancellata dalla memoria, una sola parola batte e ribatte nella sua mente delirante, il nome di Gerda riecheggia ormai come il lascito di una tragedia e non più come l’incanto di ogni dolcezza. Perfino il manipolo di Franchi che seguendo le tracce della sua follia giunge a scoprirlo in quell’antro sudicio e oscuro ha pietà di lui e si allontana turbato, cominciando a diffondere coi i canti dell’indovino che ha deciso di mettersi al loro servizio la saga del re impazzito…

Potrebbero passare anni e secoli di questa disperazione senza tempo, se non giungesse a rompere l’incantesimo della maledizione un grido d’aiuto che proviene dal lago ghiacciato: un uomo si è perso nella boscaglia del paradiso perduto ed ora rischia di diventare pasto delle fiere che l’hanno assalito ma che non osano scaval-care d’un balzo la sottile striscia d’acqua che le separa da un ‘isoletta su sui il mal-capitato ha trovato provvisoria salvezza. Ululano i lupi, e l’orso brandisce gli artigli micidiali: tanto basta per risvegliare in Ulderico l’istinto della battaglia, che lo attrae irresistibilmente. E’ un duello feroce e primitivo, come si conviene fra le belve e un uomo che ha perso la ragione e crede di vedere orde di nemici che tengono in o-staggio la sua Gerda e la capretta tanto amata, al punto da confondere l’una con l’altra…

Quando l’eroe vittorioso ma ferito si risveglierà nella grotta, vedrà sopra di sé lo sconosciuto al quale ha salvato la vita intento a curare la sue piaghe che pro-digiosamente si richiudono… Meraviglie e prodigi che vengono da lontano, da molto lontano, dai confini del mondo: Anassimandro infatti viene da Bisanzio, e porta con sé con i prodigi delle arti mediche tutta la sapienza dell’Oriente. Ma soprattutto una grande curiosità per tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, come il mondo di Ulderico e la sua lingua. Un po’ alla volta, sforzandosi di capire il significato di quesi suoni un po’ aspri che escono dalla bocca del barbaro, il bizantino impara a esplorare il mondo del nuovo amico : lo interroga con infinita pazienza, chiedendogli di pronunciare lentamente il nome delle cose e degli oggetti, così da poter imparare e trascrivere i suoni delle parole della lingua di Ulderico: suoni che diventano segni nel “codice” sul quale Anassimandro sta compilando una sorta di primo vocabolario greco-latino-longobardo…
Ma anche per Ulderico si affaccia il piacere della scoperta e della conoscenza: che strani vestiti ricamati indossa questo straniero, che calzature mai viste prima, che copricapo unico e raro! E come suona strana la sua lingua bizantina mai prima ascoltata!… Ecco, per la prima volta in vita sua Ulderico impara a pronunciare parole d’un’altra lingua, mentre ascolta le proprie sulla bocca del suo nuovo interlocutore. Dopo giorni e giorni di reciproca scuola, viene il giorno in cui i due convengono di cominciare a fondere greco latino e longobardo, per concordare parole nuove comuni che servano alla vita insieme …

Ma cos’è venuto a fare Anassimandro in queste foreste, e dove vuole andare
tutto solo, sfidando continui pericoli e insidie d’ogni genere? Che segreto nasconde quest’uomo che guarisce non solo le ferite del corpo ma anche quelle dell’anima, con un sorriso, un gesto amichevole, un ascolto attento dei racconti aspri nella lingua rude di Ulderico, mostrando simpatia umana , curiosità, raffinata sensibilità? Ulderico con la sua rude ingenuità si conquista la fiducia di Anassimandro e riesce a sapere che il bizantino è stato mandato dall’imperatore d’Oriente alla ricerca di un animale misterioso che nessuno ha mai visto, e che si nasconde proprio in queste montagne… Il longobardo non esita a mettersi al suo fianco, per ringraziarlo della guarigione avuta da Anassimandro offrendogli in cambio della sua protezione armata in questa missione così pericolosa…

(Non è difficile arguire che in questi due personaggi figuriamo narrativamen-te l’incontro fra due mondi lontani, che cominciano a comprendersi e a mutuare le proprie specifiche particolarità culturali, per porre le basi di quella che sarà la futura società insubrica. Non solo: in essi leggiamo anche la prefigurazione della diversificazione sociale del lavoro della società latino-barbarica: ai colti la gestione del sapere, ai barbari l’uso della forza armata non più a fini di rapina e di dominio ma di difesa della convivenza civile.)

Ulderico, soprannominato da Anassimandro “Ruggito”, non ha nulla da perdere a uscire dal bosco maledetto e Anassimandro diventato ormai “il Mago” ha tutto da guadagnare dalla compagnia ormai fraterna del barbaro che ha deciso di di-ventare la sua guardia del corpo. Così eccoli di nuovo in viaggio “… la casa di pietra delle vergini benedette..”, mentre le nevi dell’inverno cominciano a sciogliersi per rivelare una nuova primavera… Le colline del Ceresio offrono di nuovo fiori e profumi, ma Ulderico non cede più all’incanto fascinoso delle bellezze della natura, che descrive invece al suo compagno di viaggio come le maschere di divinità beffarde e crudeli. Anassimandro allora comincia a parlare a Ulderico dell’Imperatore Supremo, del Cristo Panrocratore signore del cielo e della terra, più potente di ogni re e d’ogni signore. Fra burroni, scarpate e briganti . Ma ecco finalmente all’oasi di pietra e di luce alla quale sono diretti e che sarà il loro provvisorio rifugio: è il monastero di Riva San Vitale, dove Anassimandro rincontra finalmente un suo vecchio amico, lo scienziato arabo Hakim, maestro nell’arte di leggere le stelle, ospite riverito dei monaci benedettini, che rispettano la sua fede in un altro Dio, chiamato Allah, e ne hanno in cambio pari rispetto e riverenza.

Ed ecco disvelarsi d’un sol colpo ad Ulderico, in questa per lui fiabesca reggia delle meraviglie, un mondo di figure dipinte, di vetri colorati, di pietra scolpita, che Anassimandro gli descrive come opera di una mano umana. In queste forme miraco-lose sono narrate le antiche storie dell’origine del mondo, dei progenitori, dei grandi patriarchi … Queste meraviglie sono gli affreschi creati da Olmutz, il maestro di tutti i pittori, che completato da poco l’ultimo racconto, spiegano le monache, è ripartito per dipingere una nuova chiesa, nascosta nelle foreste verso il mezzogiorno… Per Ulderico, abituato ad usare la mano solo per combattere o cacciare, è davvero la scoperta di un mondo nuovo, mai immaginato! Egli, seppur confusamente, comincia a porsi domande sull’arte della pittura, quasi capace di riprodurre il mondo, tenta perfino dei primi scarabocchi sul muro appena intonacato dai monaci, suscitando così il loro benevolo sorriso e prendendosi però la sua rivincita quando da solo riesce a sollevare l’immensa trave del refettorio crollata per la pioggia , salvando la vita del priore rimasto travolto dalle pietre del disastro.

Ma è proprio da sotto quel cumulo di macerie che affiora una pietra scolpita che reca la stessa decorazione geometrica ( un simbolo?) che stava sulla medaglia della collana barbarica di Gerda. Lo strazio del ricordo è immenso, e il guerriero ri-piomba nella desolazione nostalgica della figlia perduta, che però i monaci gli dicono ancora viva in un luogo che sta dopo la morte e che è stato descritto da Olmutz il pittore nel dipinto del Giudizio Universale. Ulderico non ci pensa due volte: se per rivedere sua figlia deve sottostare a un nuovo Signore ( del resto invisibile!) che tornerà alla fine dei tempi, e che gli promette di ridargli Gerda, egli è pronto a di-ventare cristiano e a ricevere il battesimo, non senza confessare però la sua ammi-razione anche per il mago arabo che di notte gli fa conoscere i movimenti delle stelle e dei pianeti nel cielo, e che lo introduce ai misteri dei numeri…

Hamim l’arabo è venuto fin quassù a studiare le stelle del nord e Anassimandro finalmente può chiedere a quest’uomo che conosce tutte le strade del mondo anche quella che deve condurlo fino alla “pietra del drago: ( lo stesso drago che Olmutz è già riuscito un giorno a vedere e che ha dipinto nei suoi affreschi!). E’ il Diavolo-drago di San Giorgio, che ogni cento anni si rivela in una cava da cui sono state prese le pietre per costruire la casa di Satana. Niente di più pericoloso di questa missione ai confini della vita e della morte, ma l’Imperatore di Bisanzio ha mandato Anassimandro il più saggio dei saggi e Anassimandro non fallirà l’impresa che nasconde un fine sublime e per la quale chiede la protezione armata di Ulderico. Gli abitanti del luogo non osano avvicinarsi al luogo maledetto, ma… chi troverà la pietra del drago potrà riportare a Bisanzio il talismano che assicurerà all’Impero l’immortalità dopo che Roma è finita in rovina e nessuno più quasi ricorda la sua dissolta grandezza. L’impresa è ai limiti dell’impossibile, perché nessuno può pre-tendere di incatenare il drago , bisogna coglierlo nel sonno ( attraverso il drago si riproporrà il tema della natura misteriosa e ‘addormentata’, ma in grado di risve-gliarsi portando morte e distruzione) e rubare una scaglia della sua coda…

Hakim esita, teme di provocare una catastrofe apocalittica, rinuncia a rivelare il sentiero del Diavolo-drago, e a nulla valgono le minacce di Ulderico che non ammette reticenze che potrebbero ostacolare la missione di Anassimandro. L’arabo tenta anzi di fuggire, ma Ulderico che ha imparato a leggere le stelle non fatica a ritrovarlo proprio nel Lucomagno da cui è partito (e che dove scopre che i Franchi hanno fatto pace coi Longobardi per volere di Carlo, fondatore di un nuovo impero in Germania.) Per ricondurre Hakim a Riva San Vitale, Ulrico deve impegnarsi con una solenne promessa: ruberà non una ma due scaglie del drago, la prima per Bisanzio e l’altra per Damasco, dove risiede il Nipote del Profeta ( Maometto). Ed è così che i tre si mettono in viaggio insieme, alla volta di quella cava dove abita il Drago…

Ma è proprio durante questo viaggio che dovrebbe portarli nella terra proibita che incontrano la bellissima e giovane Clotilde, strana figura di dama “paladina”, che da Aquisgrana, dalla corte di Carlo, sta scendendo a Roma a capo di un drappello di cavalieri per incontrare segretamente il papa e i suoi cardinali e convincerlo a incoronare imperatore il re dei Franchi. La donna, bellissima e affascinante, incanta Ulrico, benché la sua lingua sia per lui incomprensibile e solo Anassimandro riesca a tradurne qualche parola: in realtà è la dolcezza della suo canto e l’eleganza della sua lingua a sedurre i nostri viaggiatori in cammino alla ricerca delle scaglie della coda del drago. Prefigurando i futuri trovatori, e accompagnata dalla cetra di Morvinius, la bella guerriera offre agli animi inquieti di Ulrico, di Hakim, di Anassimandro momenti di fascinoso rapimento. Eppure, benché capace di ammaliare con la sua voce suadente, non è donna che conosca la paura, questa Clotilde. Quando viene a sa-pere dell’ambizioso progetto dei tre ( sfidare il diavolo in casa propria ) decide di mettersi alla testa del drappello… In breve, calandosi per dirupi e burroni, scavalcando cascate e scalando pareti di roccia, l’avventurosa comitiva giunge infine alla cava proibita, dove non trova il drago ma la sua immagine replicata cento volte nella pietra ( si tratta in realtà dei piccoli dinosauri fossili di Besano!)… Una scossa di terremoto viene scambiata ovviamente per il passo terribile e devastatore del Drago infuriato contro chi ha violato la sua tana. I tre devono scappare senza le scaglie della sua coda, portando con sé solo alcune di quelle pietre che ne recano l’immagine terrificante. Che significa dunque questo esito della spedizione? Significa forse che né Bisanzio né Damasco e neppure Aquisgrana saranno regni eterni? Su questo enigma premonitore lasciamo per ora i nostri personaggi in fuga, su una zattera che attraversa spaventose paludi…

Li ritroviamo alle sorgenti del Rodano, sulle rocce del Gottardo, il fiume di cui nessuno qui conosce la foce, fiume altrettanto leggendario che il Danubio, altra ac-qua che sgorga dalla stessa roccia e che di dice si spinga al mare Nero dell’Oriente… Che fare dunque, adesso? Clotilde riprende il suo viaggio per Roma: sulla carta se-grete che porta con sé, la donna guerriera che incanta con suo canto, mostra le tracce dei sentieri che scendono da Magonza, Francoforte, Strasburgo, e che sfio-rando i grandi monasteri di San Gallo e Sankt Moritz ha già percorso per obbedire al suo re… Luoghi leggendari dell’immenso continente che si stende al di là delle Alpi e che i nostri eroi dipingo nella propria immaginazione come le terre del ghiaccio e dei venti, come gli inabitabili estremi confini del mondo….

A Roma! A Roma! E mentre si va a Roma che si faccia sosta per incontrare il maestro dei maestri, quell’Olmutz che ha già descritto coi suoi colori a Riva San Vi-tale il mondo del futuro? Il grande pittore sta lavorando a Castrum Sibrium, fortezza longobarda attestata sulle alture che controllano la via dell’Olona che scende a Milano. Ed è qui che Clotilde conduce finalmente ( dopo aver toccato il chiostro di Voltorre, il monastero di Cairate ed averli costretti a sostare tre giorni tre notti nella torre di Torba) i tre cercatori del drago, che trovano nella chiesetta di Santa Maria foris portas il grande pittore , intento a tracciare sull’intonaco le sinopie dei suoi nuovi dipinti….

E chi è dunque questo Olmutz, che ora finalmente come Ulderico anche noi possiamo incontrare in questa chiesetta che sta appena fuori dalla mura di Castel-seprio, il piccolo capoluogo militare di questo comprensorio, già lungamente abitato dai longobardi dei quali finalmente Ulderico riascolta la lingua, benché così cambiata per la commistione con quella dei latini e dei celti ? Da dove ha portato Olmutz i segreti della sua arte? Olmutz viene da una terra ancora più lontana di bisanzio, dall’Anatolia, o meglio ancora dalla Cappadocia, la terra dei monaci padri delle chiesa ( Basilio, Crisostomo) che vivevano in grotte trasformate in angoli di paradiso da cieli dipinti azzurri più del cielo e da paesaggi sacri in cui è raccontata la storia intera dell’intera umanità, dall’inizio del Genesi al futuro incombente dell’Apocalisse (perché non inserire un sogno, in cui lo stesso Ulrico accompagnato da Olmutz vede i monaci immobili in preghiera in cima ai funghi di pietra della Cappadocia o raccolti nella meditazione suprema dentro quelle celle-scrigno che hanno scavato sui fianchi rocciosi dei monti?)

Ma se l’arte di Olmutz è così alta e irraggiungibile è perchè lui stesso è un uomo di Dio, un monaco-pittore che ha consacrato tutta la propria vita alla descri-zione dei misteri della storia sacra. Non solo: se Teodolinda ha fatto fondere nella corona ferrea di Monza un chiodo della croce di Cristo, Olmutz porta con sé una scheggia della corona di spine che fece sanguinare il Salvatore… L’incontro con que-sto monaco è decisivo per Ulderico, che non cede più alle lusinghe del canto di Clo-tilde, ma rimane affascinato da quelle figure che escono dal pennello di Olmutz….
Il guerriero che ha vagato in lungo e in largo, per anni, fra foreste e ghiacci e montagne, contempla i miracoli che prendono forma sulla parte di Santa Maria fuori le porte… Il vecchio stanco e provato dalla vita non può credere ai suoi occhi! quella donna dallo sguardo dolcissimo, quella vergine che ha appena dato alla luce il suo bambino annunciato dagli angeli e che ora si dispone ad adorarlo adagiandosi in giaciglio ovale, lei stessa trasformata in un onda di colori soavi… non ha forse lo stesso sguardo di Gerda, la figlia perduta nel lago? Ma come è possibile che Olmutz la raffiguri con tanta precisione, se non l’ha mai né vista né conosciuta? Eppure è proprio il volto inconfondibile e amato di Gerda quello che è apparso al monaco pit-tore durante le sue lunghe meditazioni e che ora risplende sulla parte della chiesa! E quel demone infernale che la donna ha vinto, e che appare in un angolo estremo del dipinto, è proprio il drago che ha fatto fuggire Ulderico, Hakim, Anassimandro e Clotilde, spaventandoli con il fragore di tuono del suo terribile passo che stava per condurli nell’abisso!
Sì, gli spiega Olmutz, è stato quel drago a trascinare Gerda in fondo al lago, ma il figlio delle vergine santa lo ha sconfitto e Gerda ora vive per sempre!….

Ulrico, che ha trovato proprio qui finalmente il luogo del suo riposo, la pace da troppo tempo inseguita invano: decide che resterà accanto al monaco pittore per poter contemplare notte e giorno le sembianze della sua Gerda ritrovata. E adesso finalmente anche Olmutz sa che la profezia del salmo si è compiuta nel guerriero barbaro che deposte le armi ormai inutili, e dimenticata Pavia, e immemore del suo re sconfitto e del nuovo re che sta per diventare imperatore del nuovo impero, ha imparato a inginocchiarsi davanti al mistero… Olmutz, in cambio di questa gioia che Ulderico gli ha regalato, lo accoglierà come un fratello, non come un servo, e gli in-segnerà i segreti dei colori, perché anche lui possa imparare a dipingere. Sì, gli promette che un giorno i paesaggi degli affreschi di Olmutz saranno tratteggiati proprio da Ulderico, che diventerà così “il maestro delle montagne” …. Perché Olmutz sa che l’arte vince su tutto, perché essa crea un mondo nuovo a immagine e somiglianza del mondo futuro, nel quale le anime dolenti che hanno conosciuto ogni possibile dolore possono trovare finalmente la pace mai prima raggiunta…

Ma gli altri compagni di viaggio stanno per ripartire. Ed ecco che per suggel-lare il ricordo del loro incontro ( tre storie così diverse, che si sono prodigiosamente incontrate sulla via del drago, e che ora stanno per separarsi!) Olmutz decide di far entrare per sempre nel suo mondo immaginario che prefigura l’eterno proprio i volti di Ulderico , Hakim e Anassimandro, che ritrae come i tre magi venuti a inginoc-chiarsi davanti alla vergine e al suo bambino…. Anche Clotilde potrebbe posare in forma di angelo , o nelle vesti di Elisabetta la cugina di Maria, ma la donna guerriera non accetta la proposta, e segretamente ne ride, come chi ha ben altri propositi da realizzare…

La comitiva, preso congedo da Ulderico, riparte: il bizantino, l’arabo e la guerriere franca non sanno vivere lontano dal trono dei loro signori… Eccoli incam-minarsi verso la foresta che li inghiotte di nuovo, nascondendoli allo sguardo di Ul-rico, che sta già macina per Olmutz il lapislazzulo che fra poco, trasformato in pol-vere, diventerà un lembo luminoso sopra la scena dell’adorazione dei magi…

E’ notte, un fuoco rischiara la radura sulla riva del fiume Padus, che domani i tre supersiti dell’antica comitiva guaderanno per andare a sud, verso roma, verso i porti affacciati alle rotte dell’Oriente. Anassimandro, Hakim, le guardie di Clotilde, si raccolgono sotto i mantelli per difendersi dal freddo, ma lei esita, ricaccia indietro il sonno. E’ troppo felice, perché è riuscita a ingannare i suoi compagni. Sì, Clotilde è riuscita a compiere l’impresa. Un raggio di luna penetra fra i rami spettrali delle querce e dei pini, rimbalza su una piccola scheggia che la donna stringe gelosamente fra le dita. Sì, Clotilde è riuscita a rubare una scaglia della coda del drago… Una pietruzza riverbera i colori dell’arcobaleno. E’ la prova che Carlo sarà imperatore e che il suo regno sarà il regno eterno sognato dai suoi padri … La donna sorride, nasconde sotto la veste, sotto la sua corazza, quel talismano diabolico che è riuscita a rubare al Diavolo in persona!

Ma Ulderico ora è felice… Ulderico, anche di notte, resta immobile per ore e ore, alla luce della torcia, a contemplare la vergine figlia , la sua Gerda che nessuno potrà più portargli via…

E molti secoli dopo, nel monastero di Santa Caterina del sasso, Alessandro Manzoni osserverà in silenzio la scultura misteriosa e indecifrata che ritrae quello sconosciuto dal volto barbuto e sorridente di cui si conosce solo il nome inciso nella pietra: Ulderico il maestro delle montagne.

Note per la realizzazione

Non ha forse osato Bergman rappresentare il medioevo del suo “Settimo si-gillo” mettendo in scena solo una sparuta pattuglia di viaggiatori del mistero ( il ca-valiere, la morte, lo scudiero, il giullare, la moglie, il bambino, il fabbro e la sua fa-miglia)? Solo in rare occasioni ci mostra una piccola coralità di villaggio (il corte dei dei flagellant, lo spettacolo nel villaggio) mostrandoci non più di venti, trenta com-parse.
E Bresson ha forse evocato il suo medioevo di “Lancillotto e Ginevra” mo-strandoci solo la corte di Artù ( una dozzina di cavalieri e qualche scudiero) , e ren-dendo celebre la scena del torneo più per ciò che non si vede che per le poche deci-ne di comparse che fanno da spettatori nell’unica “scena di massa”(!) di tutto il rac-conto?
Allora anche noi vogliamo coltivare l’ambizione di di raccontare il medioevo insubrico mettendo in scena i nostri pochi personaggi , collocandoli in scenografie (naturali e non) semplicemente affascinanti, abitate solo in rare occasione da poche decine di figuranti ( il drappello longobardo, la scaramuccia coi Franchi, le monache di San Vitale, gli operai del cantiere di Olmutz a Castelseprio). L’evocazione supplirà la dovizia di mezzi, la suggestione dei paesaggi non farà rimpiangere scene di massa create con effetti speciali di grafica computerizzata, la delicatezza e l’incanto dei suoni e delle voci sarà più convincente di una messa in scena grandiosa e solenne.

Giocheremo dunque sul fascino delle atmosfere, sulle capacità persuasive dell’intrigo della nostra storia, sull’incanto dei paesaggi , sull’evocazione immaginifica degli originali affreschi medievali, per evocare tutto un mondo, un’intera epoca della storia insubrica. Non esiteremo a prenderci qualche licenza poetica nel distribuire dentro il racconto architetture non sempre coeve, ma in ogni caso assolutamente siglate dallo stile romanico-barbarico ; magari aggiungendo qua e là qualche miserabile capanna in legno e paglia, qualche sommario accampamento militare, e mostrando qualche contadino su una barca, accanto a un mulino, a un fienile, o en-tro a una stalla.

Per vestire i nostri personaggi in modo verosimilmente congruo ai tempi che attraversano, dotandoli di oggetti di scena coerenti e appropriati, crediamo di poter trovare facile ( e parsimoniosa!) soluzione attivando proficue sinergie con enti e i-stituzioni che nel nostro territorio hanno già allestito, per le proprie manifestazioni folkloristiche e/o di rievocazione storica, un ricco guardaroba d’epoca. Fra tutti pen-siamo per esempio al Palio di Legnano che allestisce ogni anno “Il Carroccio” met-tendo in scena non solo cavalieri e dame del XII secolo, ma anche semplici contadini, artigiani, pastori, frati, ecc. che due o tre secoli prima non vestivano molto diversa-mente.

Così pure gli oggetti di scena ( del resto pochi e selezionati) saranno facil-mente reperibili e adattabili con una certa libertà creativa alle nostre esigenze ( armi, mantelli, gioielli, asce, carri in legno, pennelli, ciotole per i colori, ecc.) , come pure i pochissimi arredi dei pochi interni ( la torre, i monasteri). In qualche caso troveremo anche “macchine” agricole del tempo ( il frantoio, l’erpice, l’aratro) che filmeremo la dove si trovano, come nel castello di Angera, e così via. Nessun problema per troni, codici medievali, cassapanche, gualdrappe, coltelli, altri utensili, monili vari, noleggiabili facilmente presso magazzini teatrali che ne sono sicuramente dotati.

Insomma, la nostra intenzione è quella di rappresentare un’epoca austera e rude, in un territorio in gran parte coperto da boschi e foreste come doveva essere appunto l’Insubria alla fine dell’VIII secolo, senza gli inutili orpelli di una ricostruzione troppo artefatta e ridondante. Essenzialità e creazione poetica dovranno essere le parole vincenti.

Infine, auspichiamo , per poter agevolmente condurre in porto questa im-presa avventurosa, ottenere l’appoggio di enti locali e istituzioni sia lombardi ( in particolare varesotti e comaschi) che ticinesi, e naturalmente il patrocinio della Regio Insubrica , allo scopo di poterci avvalere del supporto di specialisti di storia ocale, ma anche il generoso appoggio operativo di musei e centri studi di storia locale, e perché no, di enti del turismo, scuole di equitazione, corpi forestali, ecc.

Siamo sicuri che l’impresa possa essere tentata con successo, giocando pro-prio sull’originalità del racconto e sulla sua ambientazione insolita e inusuale. Ag-giungiamo anche che la spettacolarità del nostro film avrebbe molto da guadagnare se la sponsorizzazione di un operatore turistico ci mettesse in condizione di portare in Cappadocia una piccola troupe, per le girare le scene dei monaci del deserto. Meglio ancora ottenessimo anche la collaborazione della TV turca.

soggetto depositato, settembre 2003